Chi compra il grano in Italia? Un duopsonio controlla la domanda

Il quadro evolutivo dell’approvvigionamento di frumento dell’industria molitoria italiana evidenzia una strutturale dipendenza dal prodotto estero. Il mercato degli acquisti è concentrato nelle mani di pochi gruppi: Casillo e Barilla controllano da soli il 57%. E con De Cecco e Divella i primi quattro operatori detengono oltre il 70% della domanda di acquisto. Fa bene alla concorrenza una simile concentrazione o può favorire fenomeni distorsivi? E’ possibile ridurre la dipendenza dall’ estero a beneficio dei nostri consumatori? 

La domanda di acquisto del grano duro in Italia è composta da una quota nazionale media annua pari a 4 milioni di tonnellate e da una quota estera che si aggira di media su 2 milioni di tonnellate. Con cui produciamo oltre 3,5 milioni di tonnellate di pasta per metà esportata. Tra i big power acquirenti di grano abbiamo Casillo (2 milioni di tonnellate), Barilla (1,4 milioni di tonnellate), De Cecco (0,5 milioni di tonnellate) e Divella (0,30 milioni di tonnellate). Il primo gruppo svolge essenzialmente attività molitoria, produce semilavorati (semola e farina) e non  è presente nelle fasi successive della filiera. Gli altri gruppi, invece, sono tutti verticalmente integrati anche nelle fasi successive della pastificazione e, oltre a molire direttamente, si approvvigionano in parte di semole esterne dal leader di mercato Casillo e altri molini.

Il mercato di approvvigionamento del grano si può, dunque, definire molto concentrato (oligopsonio) in quanto i primi quattro operatori (Casillo, Barilla, De Cecco e Divella) detengono oltre il 70% della quota di approvvigionamento del grano duro. Casillo e Barilla da soli controllano il 57% degli acquisti di grano! Il restante 30% della domanda di acquisto del grano è suddiviso tra svariati importatori, cinquecento commercianti, cooperative e altri centotrenta molini.

Chi acquista il grano in Italia? I primi 4 operatori detengono il 70% della quota

L’industria molitoria italiana

Dati Italmopa 2016 affermano che il volume complessivo dei prodotti dell’industria molitoria italiana sono valutati in circa 11.031.000 t, con un incremento di circa 76.000 t rispetto ai livelli produttivi registrati nel 2015 (10.955.000 t).

Sulla base degli indicatori relativi alla produzione e ai prezzi delle diverse tipologie di sfarinati e dei sottoprodotti della macinazione, il fatturato dei prodotti dell’industria molitoria è stimato, nel 2016,  in 3,483 miliardi di Euro, in decremento di circa il 7,3 % rispetto al 2015 (3,760 miliardi di Euro), di cui 1,727 Miliardi di Euro (1,963 Miliardi di Euro nel 2015; – 12,0 %) nel comparto della trasformazione del frumento duro e  1,756 Miliardi di Euro (1,797 Miliardi di Euro nel 2015 ; – 2,2 %) nel comparto della trasformazione del frumento tenero. Nel caso del frumento duro, il valore aggiunto che va nelle casse dell’ agricoltore  non arriva neppure a 800 milioni di euro. Una miseria!

Nella catena del valore del grano duro, l’industria molitoria e quella pastaia percepiscono, dunque, la quota maggiore di valore aggiunto e di profitti.

L’industria molitoria italiana costituisce indubbiamente un settore strategico e “di cerniera” nella filiera nazionale del frumento duro. Semole  e semole rimacinate – derivati dalla trasformazione del frumento duro – sono alla base dei prodotti della nostra alimentazione e simboli del Made in Italy, come pasta e pane, alfieri della dieta mediterranea.

L’Italia vanta un’antica tradizione di eccellenza nel settore molitorio. Nonostante il processo di macinazione, sia fondamentalmente invariato da più di un secolo, in quanto basato su interventi di natura fisica, l’industria molitoria è una realtà tecnologicamente avanzata e al passo con sfide complesse per tutta la filiera alimentare. Basti pensare al debranning (decorticazione) per ridurre le contaminazioni da micotossine DON nei grani importati. Con effetti però negativi sui componenti bioattivi e nutritivi dei chicchi di grano.

L’industria molitoria italiana è tuttavia chiamata, da diversi anni, ad affrontare nuove sfide riconducibili in primis alle proprie politiche di approvvigionamento del frumento. Il quadro evolutivo dell’approvvigionamento di frumento dell’industria molitoria italiana, anche a seguito delle insufficienti politiche agricole comunitarie e degli inefficienti meccanismi di formazione dei prezzi all’ origine, evidenzia una strutturale dipendenza dal prodotto estero. Che è possibile ridurre.

Questo mercato, infatti, potrebbe riacquistare un ampio spazio  legato alla crescente richiesta da parte dei consumatori di prodotti salubri ed esenti da contaminanti. I benefici arriverebbero anche alle casse dello Stato a seguito della riduzione delle spese sanitarie per le intolleranze alimentari. Basti pensare che solo per i celiaci l’ Italia spende ogni anno oltre 200 milioni di euro.

Il crescente squilibrio – di natura strutturale – tra offerta e domanda di materia prima a livello internazionale costituisce ulteriore fonte di preoccupazione per il settore molitorio nazionale tradizionalmente deficitario in materia prima e pertanto particolarmente esposto a misure restrittive del commercio internazionale che potrebbero essere assunte dai Paesi esportatori.

Il Ceta, del resto, per come è stato concepito serve proprio a mettere in sicurezza le nostre industrie che puntano, però, ad utilizzare materia prima conveniente (low cost) ma non sempre adatta alla crescente domanda salutistica. In Italia, infatti,  arriva prevalentemente grano di qualità scadente: lo dicono i dati delle Dogane.

I principali punti di forza e di debolezza della fase agricola e della prima trasformazione industriale. La nuova domanda di mercato

A fronte di una strutturale dicotomia esistente tra fase primaria, caratterizzata da un’offerta fortemente polverizzata, da un incostante livello qualitativo sotto alcuni aspetti tecnologici e da una sempre più incerta redditività, e quella dell’industria che, invece, necessita di un costante approvvigionamento di granella, sia in termini quantitativi sia qualitativi, cresce l’attenzione dei consumatori verso un prodotto sano.

Il dissenso di GranoSalus verso una civiltà industriale disattenta alla domanda di salute

Oggi possiamo affermare che, grazie all’ attività di informazione di GranoSalus, cresce sempre più un nuovo concetto di qualità legato agli aspetti di natura tossicologica. Lo schema industriale del profitto ad ogni costo, viene neutralizzato dalla forza delle masse non omologate, che solo nella rete trovano terreno fertile per attingere alla libera informazione. E nonostante i tentativi di definire fake news le nostre analisi, nei tribunali è venuta fuori la verità.

La novità importante nel mercato sono infatti i consumatori che si stanno sempre più trasformando in cittadini attivi e informati. Che si difendono dagli attacchi legali delle multinazionali. Che si ribellano silenziosamente nel supermercato evitando quegli acquisti di marche poco attente alla salute dei bambini e degli adulti.

Cosa può fare l’ industria?

Tale dicotomia può essere mitigata solo attivando un processo di integrazione tra le due fasi, in cui però la fase agricola, dopo la sbornia provocata da un consumismo senza limiti della fase industriale, possa recitare un ruolo di garanzia verso il cittadino attivo.

L’ industria del domani, a fronte di un rovesciamento della piramide, deve fare un passo indietro e accettare un ruolo di servizio subalterno a chi produce materia prima nobile e a chi vuole utilizzare un cibo agricolo sicuro.

Appare sempre più urgente, quindi, sostenere processi di aggregazione dell’offerta, attraverso forme di partnership tra gli operatori della filiera, con il fine ultimo di valorizzare il cibo agricolo nazionale, secondo precisi standard, rispettando i costi di produzione e senza alcuna scorciatoia protezionistica:  la qualità tossicologica del grano deve essere universalmente riconosciuta. Non si possono fare due pesi e due misure. I limiti devono essere armonizzati.

Perché bisogna fidarsi solo degli agricoltori?

Semplice. Sono stati gli agricoltori a scoprire il vaso di Pandora del traffico internazionale di grano contaminato e dei pericolosi effetti sulla salute. Una grande innovazione che rimarrà nella storia. Del resto, su che cosa si fonda l’adesione al sistema economico di mercato? La libera concorrenza ha il compito essenziale di indurre i produttori ad introdurre innovazioni idonee a rendere possibili: (i) il miglioramento della qualità dei prodotti e dei servizi; (ii) la riduzione dei costi; (iii) la differenziazione dei prodotti in modo da offrire alternative ai consumatori.

E’ vero la libera concorrenza esclude dal mercato le unità produttive inefficienti ma evita anche la concentrazione permanente di potere economico.

Bene gli agricoltori, essendo anelli deboli, sono dalla parte dei consumatori ed hanno tutto l’interesse a che la vera qualità sia premiata e difesa insieme alla salute pubblica. Ecco perché sono credibili, sia pur nelle loro difficoltà.

Ovvio che un potere economico così concentrato non resta a guardare ed ha interessi contrapposti ai nostri. Tuttavia, se il libero gioco della concorrenza viene soppresso o ostacolato, si determinano rendite monopolistiche a favore degli imprenditori che restano sul mercato a danno dell’ efficienza complessiva del sistema e dei consumatori che vengono privati dei vantaggi derivanti dall’ esistenza di un regime concorrenziale.

Cosa dice la legge antitrust?

Nel nostro ordinamento, la legge contro i monopoli (L. 287/1990) è stata introdotta un secolo più tardi rispetto agli Stati Uniti e alcuni decenni più tardi rispetto agli altri paesi Ue. Non a caso nel nostro settore le prime due imprese si trovano in una posizione dominante nel mercato di acquisto del grano, ragion per cui affinché possano evitare degli abusi sono poste di fronte ad una “speciale responsabilità” che da un lato impedisce loro di adottare comportamenti generalmente consentiti in un regime di libero mercato; dall’ altro, impone loro scelte dirette a favorire lo sviluppo di una concorrenza che non c’è più o che, in taluni casi, non c’è mai stata.

Ora, l’ elevato tasso di concentrazione in questo mercato strategico per l’ Italia lascerebbe presupporre l’assenza di concorrenza?

Il meccanismo opaco di formazione dei prezzi all’ origine, l’ assenza di griglie di valutazione della qualità tossicologica, la sentenza del Tar Puglia negativa per la Cciaa di Foggia che rileva i prezzi del grano duro o l’ ultima vicenda dell’ asta su alcuni silos a Foggia, rappresentano l’ulteriore cartina al tornasole di tale situazione?

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